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Fabio Baggio Bajo
Fabio Baggio in arte Bajo è nato il 15 novembre nel 1965 a Bassano del Grappa.
Dopo essersi diplomato in grafica pubblicitaria e fotografia frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Oggi vive e lavora nella sua casa a Romano D’Ezzelino (VI).
La sua opera è frutto dell’esigenza di comunicare sensazioni, emozioni, idee… e lo fa dando un forte rilievo al segno e all’orditura grafica, rivelando una notevole capacità di inserire l’oggetto nello spazio dell’immaginazione pura, anche quando si tratta di un ritratto, soprattutto nel ritratto. Per lui il volto non è più semplicemente una parte del corpo, ma acquisisce un ruolo narrativo in quanto esso ‘racconta’ non solo quello che una persona è, ma anche e soprattutto quello che vorrebbe essere.
La bellezza dell’opera di Bajo non è quindi nelle proporzioni e nelle armonie di corpi e colori, ma sta nel suo messaggio: gridare le verità. Verità della realtà, con tutta la sua crudeltà, e la verità della condizione umana, a partire dalla sua ‘qualità vibrante’ che conduce ad una pittura distorta, a volte deformata fino al caricaturale.
A guardar bene non si direbbe, però è daltonico.
Fabio Baggio, known by the art name “Bajo”, was born on November 15th 1965 in Bassano del Grappa, Vicenza, Italy. Today he lives and paints at his home in Romano D’ezzelino (VI) in the Veneto region. Looking at his works you would not say, however, it is color-blind.
An Aesthetic Vibration. The Art of Fabio Baggio (Bajo).
(…) The stroke of the artist is meaningful, it initiates and promotes a cognitive and communicative interaction, the result of the need to convey feelings, emotions, ideas. In his works, Bajo imbues signs and weaving marks with great strength, revealing a remarkable ability to place the object in the pure space of the imagination, even when it is a portrait, perhaps especially when a portrait. His works of this pictorial kind in which we find subjects of great expressiveness, are almost indecipherable and at times, enigmatic. The artist, with extraordinary creative vitality, and in the name of the most absolute spontaneity and immediacy, both pertaining to content and formality, creates a complex interplay of references, in which the graphic sign, the color, but also the light, shadows and reflections appear to develop their own independent path, setting forth images that materialize on the canvas. In his paintings, color is treated with absolute freedom and exuberance. His strokes are never random and with their lines and color they arouse a visual short-circuit that passes through the consciousness itself of the pictorial gesture.
(…) Bright colors delimited by bold strokes, by lines that make his artwork vibrant, of great aesthetic value, where the color becomes a symbol of inner restlessness. It is in this sense that we may trace elements belonging to Nordic Expressionism where issues of existential distress, psychological anguish, a sense of failure and difficulty in achieving the idea of “infinite” often prevail. But, beyond these various references, it must be said that the work of Bajo is not bound to a single style or method or even a movement. He breathes new life into previous intents, this time with “other” elements, finding ever new “alien worlds” to represent and communicate. For him, the face is not simply a part of the body, but it acquires a narrative role in that it “reveals” not only what a person is, but also what they would like to be. In his artistic path, Bajo does not avoid experimentation, indeed, he engages possible new languages, seeking out a graphical form that is more pure and further away from the matter, approaching a kind of graffiti art, where the force of the sign expresses the instinctivity and energy of the creative act. In the paintings of Bajo, imagination is never vague or indefinite. There always exists always a close dialogue between the need for communication and the pictorial solutions, searching for the unknown, for this integration between the reality of nature and man which is within him and he is able to master.
MARIO GUDERZO
UNA VIBRAZIONE ESTETICA.
La pittura di Fabio Baggio (Bajo).
Mario Guderzo
Il fine specifico dell’arte è stato da sempre quello di produrre opere ‘belle’ in modo da fornire dei criteri di valutazione capaci di farci contraddistinguere appunto il ‘bello’ dal ‘brutto’. La filosofia, la sociologia e la psicologia si sono da sempre interessate all’arte, ma è con l’estetica che, a partire dal XVIII secolo, si è cominciato a indicare una scienza filosofica che avesse per oggetto il bello in generale. Dal momento in cui nasce l’estetica, la nozione di bellezza sarà strettamente connessa con quella di arte.
Secondo Alexander Gottlieb Baumgarten, padre dell’estetica, la bellezza rappresenta la perfezione della conoscenza sensibile; in effetti c’è sempre stato un atteggiamento positivo nell’apprezzamento della bellezza, in quanto gli uomini possiedono una innata sensibilità nei confronti del bello. Sull’estetica disquisirono altri filosofi, ma è con le lezioni di Hegel e con la pubblicazione della sua opera Estetica che iniziò ad emergere un pensiero filosofico teso ad occuparsi del ‘bello’, o meglio, della filosofia della ‘bella arte’, il cui oggetto di interesse e di indagine non è necessariamente il bello naturale, ma proprio il bello artistico, cioè ‘la sola realtà conforme all’idea del bello’, la cui superiorità sul bello naturale è dettata dalla sua intima appartenenza al regno dello Spirito. Infatti, scriveva Hegel “il bello naturale appare solo come un riflesso del bello appartenente allo spirito”. Possiamo, allora, affermare che l’estetica è una disciplina difficilmente definibile, che si occupa di una grande varietà di argomenti tra cui il ‘bello’, ‘l’arte’ e ‘la sensibilità’. Etimologicamente, però, il termine ‘estetica’ ha a che fare non tanto con la bellezza, quanto con la sensibilità: ‘estesi’, infatti, significa proprio sensibilità, percezione. La sensibilità è, quindi, strettamente legata al concetto di arte, e coinvolge sia la sensibilità dell’artista sia quella del fruitore dell’opera. Così un segno grafico non è mai gratuito, ma è un significante, nel senso che avvia e promuove un’operazione conoscitiva e comunicativa. Oggi ogni artista crea per sé, ma, nonostante a volte non lo voglia ammettere, anche per gli altri, la sua opera è frutto dell’esigenza di comunicare sensazioni, emozioni, idee…
Così anche Bajo, e lo fa dando un forte rilievo al segno e all’orditura grafica, rivelando una notevole capacità di inserire l’oggetto nello spazio dell’immaginazione pura, anche quando si tratta di un ritratto, soprattutto nel ritratto.
Notevole è, infatti, la sua produzione di questo genere pittorico in cui troviamo soggetti di grande espressività, quasi indecifrabili e, alle volte, enigmatici. L’artista, con straordinaria vitalità creativa, e in nome della più assoluta spontaneità ed immediatezza, sia contenutistica che formale, ci pone di fronte a figure che sfuggono quasi alla loro presenza diretta. Crea così un complesso gioco di rimandi, in cui il segno, il colore, ma anche la luce, le ombre e i riflessi sembrano sviluppare un loro percorso autonomo, andando ad impostare immagini che si materializzano sulla tela. Nei suoi dipinti il colore viene trattato con assoluta libertà ed esuberanza, i tratti non sono mai casuali, suscitano, con le linee e con il colore, un cortocircuito visivo che passa attraverso la coscienza stessa del gesto pittorico. I colori predominanti sono il giallo, il verde, il blu e il rosso, quelli più usati dagli artisti della Pop Art. Sono colori sgargianti, delimitati da tratti decisi, da linee che rendono la sua una pittura vibrante, di notevole valenza estetica, dove il colore diventa simbolo di un’inquietudine interiore. In questo senso si possono ritrovare elementi propri di un Espressionismo nordico in cui prevalgono spesso temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la melanconia profonda e struggente, un senso di incapacità e di difficoltà nel raggiungere l’idea di ‘infinito’.
L’occhio, per gli espressionisti, è solo un mezzo per giungere all’interiorità umana, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica, perché l’opera d’arte non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno, spostando la visione all’interiorità più profonda dell’animo umano. Nonostante questi rimandi all’Espressionismo e alla Pop Art, nel suo percorso artistico Bajo non si sottrae alla sperimentazione, anzi, si cimenta con nuovi possibili linguaggi, che, a volte, appaiono sottrarsi alla concettualità del disegno, alla ricerca di una forma grafica più pura e più lontana dalla materia, avvicinandosi ad una sorta di graffitismo, in cui la forza del segno esprime l’istintività e l’energia dell’atto creativo. Ecco perché l’immaginazione, nei quadri di Bajo, non è mai vaga o indefinita: esiste sempre un fitto dialogo tra la necessità di comunicazione e le soluzioni pittoriche, alla ricerca dell’ignoto, di questa integra realtà della natura e dell’uomo che è interiore e capace di dominarla. D’altra parte sappiamo che i prodotti artistici nascono per sopravvivere al loro creatore e in essi si racchiudono valori spirituali eterni, scaturiti dall’esperienza personale dell’artista e dalla realtà sociale in cui vive o è vissuto o vivrà. In questo senso, le opere d’arte hanno l’importante compito di essere una fonte comunicativa di testimonianza di valori che da temporali divengono eterni e solo allora diventano arte. Nello stesso tempo, l’atto creativo include in sé il carattere d’imprevedibilità, quando il processo di pensiero sfugge alle leggi deterministiche e va ad influenzare il concetto del ‘bello’ come lo intendiamo oggi: bello è ciò che è spontaneo, originale e genera risposte individuali, ma che possono esprimere significati universali.
La bellezza dell’opera di Bajo non è rinvenibile nelle proporzioni e nelle armonie di corpi e colori, ma sta nel suo messaggio: gridare le verità. Voler rappresentare la realtà, con tutta la sua crudeltà, e la condizione umana, a partire dalla sua ‘qualità vibrante’, conduce ad una pittura distorta, a volte deformata fino al caricaturale. Anche qui ritroviamo gli espressionisti nordici che tendevano, con le loro opere, all’immediatezza e alla sincerità, e per arrivare a ciò avevano scelto come un linguaggio pittorico ‘primitivo’. Secondo loro il pittore non doveva ricavare l’apparenza dell’oggetto o impressione, come avevano fatto gli Impressionisti, ma doveva imprimere sulla tela, con forza, l’emozione assolutamente spontanea da loro suscitata. Così Jean Dubuffet, soprattutto nei ritratti, voleva rappresentare un “paesaggio d’anima e volti”, ed è stato in grado di capovolgere molti dogmi della ritrattistica interpretando il corpo come “paesaggio incorporato e vivente”. Nei celebri versi di Claire de Lune, Paul Verlaine scrive: “La vostra anima è uno scelto paesaggio. Incantato da maschere e da bergamasche che suonano il liuto e danzano, quasi tristi sotto i loro travestimenti fantastici”. Così i volti di Bajo, carichi di un’energia dirompente, creata dal segno inciso, vibrante e da veloci e progressive pennellate sulle figure, nonché da macchie di colore, si deformano e svelano la verità dell’esistenza; come i volti di Bacon la cui alterazione è un artificio e uno strumento compositivo per evidenziare il soggetto, con la sua angoscia esistenziale. La problematica del ritratto si situa proprio all’incrocio tra filosofia e pittura, poiché è in gioco l’esposizione del soggetto che si disvela nella sua nudità, senza veli che celino la sua figura. Nel contesto delle Lezioni di estetica di Hegel, il ritratto rappresenta il punto mediano tra l’interiorità e l’esteriorità. L’artista dipinge il soggetto dal ‘di dentro’, sospendendo ogni dipendenza da ciò che è ‘fuori’, a volte, cerca di dare forma e senso all’elemento umano attraverso la negazione dialettica del tangibile. Le deformazioni dei volti, così come le pose corporali espressive, tradiscono la volontà di rappresentare ‘altro’ dal mondo reale. Ma, al di là dei vari riferimenti, dobbiamo dire che l’opera di Bajo non è vincolata ad uno stile, ad un metodo o ad un movimento, egli fa rivivere intenti precedenti, ma con elementi ‘altri’, così affrontando diverse possibilità espressive, trova ‘mondi estranei’ sempre nuovi, da rappresentare e comunicare.
Per lui il volto non è più semplicemente una parte del corpo, ma acquisisce un ruolo narrativo in quanto esso ‘racconta’ non solo quello che una persona è, ma anche e soprattutto quello che vorrebbe essere. La credenza primitiva della ‘magia dell’immagine’ si è perpetuata nelle molteplici valenze che il ritratto ha assunto nelle varie epoche storiche, fino a giungere alla società odierna in cui il ‘consumo dello sguardo’ è diventato il motore propulsore delle moderne comunicazioni di massa. Il rapporto dell’uomo con la propria immagine non riguarda più soltanto la sfera individuale, ma entra a far parte della fitta rete di relazioni sociali che si costruiscono quotidianamente. Allo stesso modo, il ritratto, oggi, non può soltanto testimoniare un’identità, ma deve ammaliare, attrarre. Ora, affinché la sua arte sia veramente comunicativa, è necessario che il fruitore sia recettivo e, soprattutto, sia aperto alla comprensione profonda della creazione artistica che ha di fronte. Come sostiene Jean-Luc Nancy nel caso del ritratto, mentre noi guardiamo il quadro, esso ci ri-guarda, è una sorta di rispecchiamento che parte dall’artista ed arriva al fruitore dell’opera. Il discorso sul soggetto e sulla comunicazione con l’esterno porta ad affrontare la questione dei rapporti ritratto e autoritratto. Se ogni ritratto, come è stato più volte affermato, è un autoritratto, vuol dire che il pittore dipinge sempre se stesso, secondo il meccanismo di “proiezione di porzioni dell’Io del pittore nel soggetto”. In una prospettiva junghiana Saverio Falcone ne’ L’Edipo capovolto, riferisce: “Ogni ritratto è così anche un nostro autoritratto, la specifica fisionomia di un viso e insieme il paesaggio dove abita l’umanità tutta”. Lo stesso Bacon aveva detto: “Vorrei sembrasse che un’esistenza umana avesse percorso i miei quadri, che vi fosse passata sopra, come una lumaca. Vorrei rimanesse impressa l’impronta della presenza umana e una traccia che ricordasse avvenimenti passati, come la bava lasciata dalla lumaca al suo passaggio”.